giovedì 7 febbraio 2013

Persentazione Programma

domenica 24 giugno 2012

I dieci punti sull’intervento straordinario che non avevate mai osato chiedere. Prima Parte

A cura di Maria Carannante

L’intervento straordinario per lo sviluppo delle aree depresse è stato lo strumento di politica economica di maggior interesse del secolo scorso. Durato quarant’anni e frutto dell’influenza del pensiero economico e delle condizioni socio - economiche non solo italiane, ma anche dell’Europa e degli USA di quel periodo, è di certo oggetto di un acceso dibattito che sembra non essersi ancora concluso.

Cresciuto insieme alla questione meridionale, anche se non è nato con essa, si è radicato nei ricordi attraverso giudizi poco veritieri e poco documentati.
L’articolo tenta di fare luce su alcuni punti più o meno conosciuti in modo rendere più trasparenti finalità, esecuzione ed effetti dell’intervento. L’articolo non si pone obiettivi di esaustività, rimandando a fonti più autorevoli, ma di mettere in discussione alcuni assiomi che sono nati sul tema.1
Esso è suddiviso in dieci punti ed è riportato in tre parti per semplificarne la lettura.

1. Determina il punto di rottura tra il meridionalismo classico e il nuovo meridionalismo:

Si definisce nuovo meridionalismo la corrente di pensiero nata nel dopoguerra e si distingue dal pensiero meridionalista fino ad allora adottato e definito classico perché ha introdotto l’importanza del coinvolgimento delle classi dirigenti del Nord allo sviluppo del Sud. In altri termini, secondo la nuova corrente, la convergenza economica delle due aree non può prescindere dalla convergenza politica.

Nel meridionalismo classico sono identificabili fondamentalmente due posizioni; secondo la prima il meccanismo di mercato porterà al superamento della situazione di dualismo e l’azione pubblica potrà facilitare quel superamento, senza che occorra far ricorso a misure che non siano proprie di quel meccanismo. L’altra posizione ha come presupposto che sia di importanza pregiudiziale, per il progresso del nostro Paese, un mutamento radicale o addirittura rivoluzionario degli equilibri politici e dell’ordinamento dello Stato; in un quadro profondamente mutato, i problemi del Paese, inclusa tra essi la questione meridionale, si sarebbero presentati in termini ovviamente del tutto nuovi e in quei termini essi sarebbero stati affrontati. Sembra evidente che le due opposte posizioni hanno come comune caratteristica un limitato interesse per l’identificazione di processi che, una volta avviati nel sistema di rapporti esistente, concorressero alla unificazione economica e sociale del Paese.” [1]
Il nuovo meridionalismo si pone in linea con due filoni di pensiero che hanno caratterizzato gli anni del dopoguerra e in contrapposizione con gli studi finora presentati sulla questione meridionale: il primo è il modello economico keynesiano, che prevedeva un intenso intervento pubblico per lo sviluppo, l’altro è il sistema politico bipolare, che ha portato alla creazione delle sfere di influenza e che ha condizionato il ripristino dei confini precedenti al 1943 onde evitare l’isolamento degli stati italici che altrimenti sarebbe avvenuto.
Il pensiero neomeridionalista fu sintetizzato da Pasquale Saraceno in due proposizioni: secondo la prima la questione meridionale era una questione nazionale e lo stato italiano non poteva esimersi dalla sua risoluzione, secondo l’altra la condizione necessaria, ma non sufficiente, per il superamento della questione meridionale era l’industrializzazione del Mezzogiorno. Ne conseguiva che lo stato italiano avrebbe dovuto farsi carico dell’industrializzazione del Mezzogiorno per garantire la sua stessa sopravvivenza. [2]
È l’incontro tra queste due correnti che permise la definizione dell’intervento straordinario. Esso, infatti, fu presentato come uno strumento di politica economica finalizzato all’intensificazione e modernizzazione del settore agricolo, alla nascita del settore industriale e allo stimolo di una domanda che potesse far fronte all’offerta così creatasi.

2. È stato realizzato attraverso quattro fasi distinte:

I quarant’anni dell’intervento straordinario possono essere approssimativamente essere suddivisi in quattro fasi: [3]
  • La prima fase, relativa all’istituzione della Cassa e allo Schema Vanoni, che ha previsto sostanzialmente gli investimenti per la preindustrializzazione delle aree depresse;
  • La seconda fase, cominciata alla fine della programmazione prevista dallo Schema Vanoni e finita negli anni ‘70, che ha previsto un notevole aumento degli incentivi per l’industrializzazione delle aree depresse;
  • La terza fase, dell’industrializzazione esterna, caratteristica degli anni ‘70 e ‘80, che ha previsto la nascita di insediamenti industriali “programmati” nell’area. Si tratta della politica dei poli di sviluppo.
  • La quarta fase, dello sviluppo assistito, istituita nella metà degli anni ‘70 fino alla chiusura dell’intervento straordinario, limitata al sostegno dei redditi delle famiglie.
L’intervento straordinario è stato legato principalmente due organismi “centrali”. Il primo è la Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia Meridionale, un ente pubblico con sede a Roma con lo scopo di coordinare la gestione delle risorse finalizzate allo sviluppo, l’altro è Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno (SVIMEZ), privata senza fini di lucro, con sede a Roma e con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo nel Mezzogiorno.
Il primo intervento pubblico gestito dalla Cassa fu lo Schema di sviluppo della occupazione e del reddito del decennio 1955 - 1964, noto anche come Schema Vanoni, redatto dalla SVIMEZ e che ha introdotto per la prima volta la necessità di un intervento programmatico di sviluppo. In particolare, esso era basato sull’idea che:
Lo squilibrio Nord - Sud veniva a costituire una delle principali manifestazioni di inefficienza del sistema economico italiano.” [4]
E gli investimenti, così come predisposti fino ad allora, rappresentavano un’inefficienza dell’intervento pubblico, che dovevano essere ridefiniti in un’ottica di industrializzazione del Mezzogiorno, ripartendo la spesa per la creazione di un’economia autopropulsiva nella misura del 48% al Sud e del 52% al Nord.
La novità introdotta dallo schema Vanoni fu sostanzialmente quella di considerare il Mezzogiorno in un’ottica sistemica rispetto allo stato italiano, abbandonando quell’idea di indipendenza della questione meridionale dagli obiettivi di politica economica dello stato italiano che ha caratterizzato gli interventi fino ad allora. [5]
Lo Schema Vanoni si è posto come obiettivo quello di indirizzare la spesa pubblica all’incremento della quota dei redditi privati destinata al risparmio e all’investimento piuttosto che al consumo per un periodo medio - lungo, indicato nello schema stesso in dieci anni [6]. I limiti di questo approccio risultarono evidenti dal punto di vista del pensiero neomeridionalista, secondo cui esso appariva come un mero esercizio macroeconomico che non poteva essere d’aiuto all’industrializzazione dell’area. [6]

Per questa ragione si è ritenuto necessario intervenire direttamente nel processo di industrializzazione, attraverso politiche di incentivi prima e la localizzazione di imprese pubbliche poi al fine di stimolare la nascita di distretti industriali formati da piccole e medie imprese.
Gli incentivi avevano sostanzialmente lo scopo di proteggere le imprese meridionali dall’invasione delle imprese del Centro - Nord che operavano in condizioni vantaggiose rispetto ad esse, i poli di sviluppo invece di sollecitare la nascita di sistemi distrettuali di piccole imprese. [6]
La crisi di questa fase di intervento si fece sentire presto: le ragioni del fallimento della politica di industrializzazione esterna erano sostanzialmente legate a scelte di investimento sbagliate. Sono state privilegiate grandi imprese ad alta intensità di capitale, che non hanno attenuato il problema della disoccupazione e il relativo fenomeno migratorio nell’area, con impianti spesso sottodimensionati e localizzati più in funzione di convenienza politica che di effettive opportunità di sviluppo. [7] A ciò bisogna aggiungere che gran parte delle imprese che si insediarono nel Mezzogiorno mantennero i rapporti con le case madri ed erano di fatto gestite da esse. Ciò ha impedito la creazione di un adeguato capitale umano nel Mezzogiorno e la gestione dei poli avveniva privilegiando gli interessi dell’area di origine. [7]

La crisi dei poli di sviluppo è stata poi accentuata dallo choc petrolifero, dal malcontento della gestione delle risorse pubbliche e dall’istituzione delle regioni a statuto ordinario che hanno portato, nel 1984, alla chiusura della Cassa, sostituita due anni dopo dall’Agenzia della promozione dello sviluppo del Mezzogiorno (Agensud), con il compito di erogare incentivi ed approvare piani di investimento proposti dai neonati enti locali. [8] L’istituzione dell’Agensud aveva infatti lo scopo di affidare a livello locale il compito di promuovere lo sviluppo, attraverso una programmazione specifica per ogni singola regione.
In realtà questa fase dell’intervento straordinario ha messo in luce le difficoltà di comunicazione tra le istituzioni di diverso livello: le regioni si dimostrarono incapaci di gestire le risorse straordinarie a disposizione né fu data loro la possibilità di partecipare davvero alla programmazione, rimasta nelle mani dell’amministrazione centrale. [8]
Di conseguenza, le politiche attuate in quest’ultima fase di intervento furono sostanzialmente di sostegno dei redditi delle famiglie. [3]
L’intervento straordinario venne chiuso nel 1992, a causa principalmente delle politiche di revisione dei conti pubblici richieste per l’ingresso nel mercato unico europeo. La chiusura dell’intervento straordinario ha determinato una notevole riduzione della spesa pubblica nell’area che ha inevitabilmente causato la contrazione dei redditi delle famiglie, essendo venuto meno il sostegno su cui fino ad allora avevano contato. [9]

3. È stato possibile grazie all’appoggio degli organismi internazionali:

L’intervento straordinario è stato in larga parte ispirato alla New Deal, applicata negli Stati Uniti per far fronte alla grande depressione del 1929. In particolare la Cassa ricorda la Tennessee Valley Authority voluta da Roosvelt per incentivare lo sviluppo della valle del Tennesse. L’idea di fondo in entrambi i casi è stata la creazione di un unico ente che coordinasse sia gli interventi di modernizzazione del settore agricolo che quelli di sviluppo industriale atti a stimolare la crescita economica delle aree in forte ritardo con lo sviluppo. In Italia ci fu comunque una precedente esperienza di questo tipo tramite la costituzione dell’IRI. [10]
Per la realizzazione della prima fase dell’intervento, inoltre, ci fu il coinvolgimento della Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS), con un duplice scopo: il primo era quello di assicurarsi la creazione di un piano di sviluppo preciso ed efficace, l’altro era il consolidamento dei rapporti tra Italia e Stati Uniti. [11]
L’intervento della BIRS fu visto in un’ottica di prolungamento del Piano Marshall limitatamente alle aree in ritardo con lo sviluppo e, tramite precedenti accordi con la SVIMEZ, esso si realizzò, oltre che con il finanziamento delle singole opere realizzate, con la messa in circolazione di dollari a supporto della crescita dei consumi e delle importazioni di materie prime. Ciò permise all’Italia anche di poter essere competitiva nelle esportazioni. [11]
Dal canto suo, la BIRS trovò conveniente poter prendere parte alle decisioni del più grande e attraente piano di sviluppo regionale del mondo, così come fu definito in uno dei suoi rapporti, pur contribuendo in misura minima al progetto, ovvero per circa un decimo del totale dell’importo da stanziare. [11]

4. È stata un’iniziativa proposta e approvata sia dagli studiosi del nuovo meridionalismo che dalle classi dirigenti del Nord:

La fondazione nel 1946 della SVIMEZ può essere vista come l’incontro tra il neomeridionalismo, rappresentato da Rodolfo Morandi, e le politiche di industrializzazione, rappresentate da Pasquale Saraceno. [11]
La politica della SVIMEZ si opponeva fortemente alla visione padano - centrica adottata dal primo IRI [2]. Nonostante ciò, la nascita dell’associazione non interessò solo gli USA, che intervenne attraverso i finanziamenti del Piano Marshall e la BIRS, ma anche la classe imprenditoriale del Nord, che vide nell’industrializzazione del Mezzogiorno un’opportunità per la modernizzazione dell’economia di tutto il Paese, così come auspicato dagli economisti neomeridionalisti. Alla costituzione della SVIMEZ, infatti, parteciparono anche le grandi imprese del triangolo industriale.

Alla SVIMEZ si associarono immediatamente, oltre alla Banca d’Italia e alle principali banche nazionali, la Confindustria, la Federconsorzi, tutte le imprese IRI e le principali imprese private italiane, tra cui la FIAT, la Montecatini, la Breda, la Pirelli, la Innocenti, la Olivetti, nonché il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, e alcune camere di commercio, consorzi di bonifica, banche e imprese locali.” [11]
Era l’intera economia italiana, infatti, ad essere in seria difficoltà nel dopoguerra. Il Nord, nonostante le migliori condizioni economiche che poteva vantare rispetto al Sud, era notevolmente arretrato rispetto all’Europa occidentale e gli USA. L’economia italiana ristagnava dagli inizi del XX secolo e le prospettive di crescita erano misere senza un’adeguata politica di sviluppo per tutto il Paese. Era quindi la crescita del reddito nazionale il vero obiettivo posto dall’intervento straordinario. [11]
L’intervento straordinario, quindi, divenne un accordo tra la classe imprenditoriale del Nord e gli economisti neomeridionalisti, che diede vita ad un piano di interventi che non ledesse gli interessi dei primi. La classe imprenditoriale del Nord aveva infatti interesse al mantenimento del dualismo che caratterizzava l’economia italiana e auspicava uno sviluppo nel Mezzogiorno che si limitasse al settore terziario, in modo da poter invadere il mercato che si sarebbe venuto a creare con il proprio settore secondario. [3]
Ciò si realizzò attraverso la separazione della fase degli investimenti in infrastrutture da quella dell’industrializzazione ha permesso alle imprese del Nord di insediarsi al Sud.

L’aver creato al Sud prima le infrastrutture e poi le industrie […] ha fatto sì che il processo moltiplicativo alimentato dalla spesa per opere pubbliche al Sud ha favorito l’industrializzazione al Nord, perché la maggior domanda di prodotti industriali dei meridionali dovuta alla spesa pubblica, non avendo trovato un’offerta di prodotti industriali al Sud, è rifluita al Nord, alimentando […] il dualismo.” [3]
Il successivo insediamento delle imprese pubbliche nel Mezzogiorno non è stato sufficiente allo sviluppo dell’area, dato che le neonate imprese locali non riuscirono comunque a reggere la concorrenza delle imprese del Nord.2


Riferimenti:

[1] Saraceno, P., “Il nuovo meridionalismo.”, in “Quaderni del trentennale 1975 - 2005”, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 2005.
[2] Saraceno, P., “Morandi e il nuovo meridionalismo.”, in “Rivista Apulia, numero IV - 81”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Dicembre 1981.
[3] Jossa, B., “Il Mezzogiorno e lo sviluppo dall’alto.”, in “Rivista economica del Mezzogiorno, anno XV, numero 3”, Settembre 2001.
[4] Alemanno, C., “Problemi dello sviluppo meridionale.”, in “Rivista Apulia, numero IV - 83”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Dicembre 1983.
[5] Novacco, N., “Alcune scelte degli anni ’50 per il Mezzogiorno.”, in “Rivista Economica del Mezzogiorno, anno XV, numero 1 - 2”, Marzo - Giugno 2001.
[6] Pica, F., “Salvatore Cafiero e la «Storia» dell’intervento straordinario.”, in “Rivista economica del Mezzogiorno, anno XV, numero 3”, Settembre 2001.
[7] Cerrito, E., “La politica dei poli di sviluppo nel Mezzogiorno. Elementi per una prospettiva storica.”, in “Quaderni di Storia Economica, numero 3.”, Banca d’Italia, Giugno 2011.
[8] Trono, A., “Squilibri regionali in Italia e politiche di intervento pubblico per lo sviluppo dell’occupazione locale.”, in “Anales de Estudios Economicos Y Empresaliares”, Universidad de Valladolid, 1993.
[9] OCSE, “Assessment and Recommendations, in OECD Territorial Reviews – Italy.”, traduzione italiana, Parigi-Roma, Settembre 2001.
[10] Lepore, A., “Cassa per il Mezzogiorno e politiche per lo sviluppo.”, in “SSRN working papers series”, Gennaio 2012.
[11] D’Antone, L., “L’«interesse straordinario» per il Mezzogiorno (1943-1960).”, in “Meridiana, numero 24”, 1995.

1 Sono ovviamente bene accette domande, suggerimenti, approfondimenti e correzioni. Torna.
2 E la situazione, ad oggi, non sembra essere migliorata. Torna.

sabato 12 novembre 2011

La via meridiana che dissolverebbe la Lega Nord

Di Nicola Salerno

Penso che ogni paese sviluppato anelerebbe ad avere sovranità sul meridione d’Italia. Se non altro per la sua imparagonabile posizione geografica, di ponte tra i paesi del mediterraneo in via di democratizzazione e di sviluppo e il mondo occidentale.
Fa eccezione solo La Lega Nord che ha fatto dell’anti-meridionalismo la sua stessa ragione di esistere. E così, facendo del pregiudizio e dei discutibili stereotipi anti-meridionali la sua stessa linfa, è costretta a non riconoscere nello sviluppo del Sud le grandi opportunità economiche che si aprirebbero anche per la cosiddetta Padania grazie al rapporto privilegiato che le industrie del nord avrebbero rispetto alla concorrenza internazionale.
Sta qui a mio modesto avviso l’empasse politico che negli ultimi venti anni ha precluso ogni possibilità di sviluppo delle regioni meridionali. Per carità niente di nuovo. Solo il ripetersi della solita litania: il sud Borbone, il sud brigante, il sud malavitoso, il sud parassita, etc.. Insomma la moderna via leghista con la quale si perpetua lo status di colonia al quale è stato relegato il Sud dall’ unità ad oggi.
Per la lega lo sviluppo del Sud significherebbe l’estinzione, l’eutanasia politica? E infatti basta il solo anelito di una politica nuova (e si spera efficace) per Napoli ad intensificare i continui, ingiustificati e rozzi attacchi di Tele/Radio Padania al neo sindaco della città partenopea. Invettive spesso prive di ogni fondamento e che sono solo il tentativo squallido di procacciarsi ossigeno che a quanto pare, stando ai sondaggi più recenti, sembra iniziare a scarseggiare. Insomma se Napoli (e in generale il Sud) sale, la Lega si dissolve.
Permettetemi una breve digressione. In tutta onestà, da meridionale, mi chiedo, dopo aver appoggiato per anni un governo appeso al chiodo (anti meridionale) leghista, con i risultati fallimentari per il Sud che sono sotto gli occhi di tutti, come si possa nutrire speranza da certi esponenti politici. Come è vero che l’abito non fa il monaco, è assai improbabile che il solo indossare la veste (pseudo) meridionalista possa fornire a "Grande Sud" quello slancio e quelle capacità che per lustri non si sono palesate. E il dubbio che gli interessi non siano proprio quelli dei meridionali sembra essere legittimo considerando che mantengono, anzi mantenevano in vita un governo asfittico a trazione leghista.
Meraviglia poi come gli imprenditori del nord (non la finanza che ha ben altre mire) non si rendano conto di come lo spirito di autoconservazione della Lega Nord e purtroppo la diffusione del leghismo in genere (PD e PDL non ne sono immuni) sia, non la sola ovviamente, ma una delle principali cause interne della recessione verso la quale si stanno avviando.
Ed è veramente strano che non si rendano conto del fatto che gli stanziamenti a sostegno delle politiche di sviluppo per il Sud, se attuate con rettitudine (e qui sarebbe chiamata in causa anche una nuova e rinnovata classe dirigente meridionale), potrebbero essere, non delle mere spese e/o costi morti, ma al contrario buoni investimenti anche per il loro apparato industriale. Se lo facessero ne conseguirebbe un quadro politico completamente diverso. Si avrebbe una convergenza di obiettivi vincente da contrapporre alla municipalistica e perdente dualità (nord-sud) di interessi attualmente imposta dalla Lega di Bossi. Basterebbe guardare a quello che sono riusciti a fare i tedeschi dopo la caduta del muro.
Ma una tale visione richiederebbe, patriottismo a parte, un atteggiamento di apertura, coraggio e intraprendenza che sembra proprio non albergare dalle parti della cosiddetta Padania. Dove invece sembra prevalere l’opposto: chiusura, remissione, municipalismo endemico. In una sola parola, paura.
I Borbone, già nel 1817, avevano concepito una legge sull’immigrazione volta a favorire le eccellenze anche non indigene: chi poteva dimostrare di possedere risorse e/o buone idee volte al miglioramento della qualità della vita del Regno, poteva richiederne la cittadinanza. Con più di due secoli di anticipo, un po’ come è avvenuto e continua ad avvenire negli USA (e in generale in tutto il mondo) dove le università e i centri di ricerca sono sempre alla caccia delle menti migliori, indipendentemente dalla nazionalità. Anche questo atteggiamento di apertura è stato alla base dei primati raggiunti dal Regno delle Due Sicilie e per venire ai tempi nostri, alla base della supremazia tecnologica raggiunta dagli Stati Uniti, almeno fino ad oggi. Vi risulta che gli americani (nel bene e nel male) per questo si siano allontanati dalla loro propria autodeterminazione?
Esattamente all’opposto del federalismo folcloristico di Calderoli (l’ennesima porcata anti-meridionale) che sostiene che bisogna privilegiare nelle graduatorie i residenti magari anche a prescindere dal merito. A sostegno di tale discutibile posizione pone anche un assai dubbio interesse municipale affermando che le risorse prodotte dal territorio devono essere riservate in primis ai residenti di quel territorio. Costituzione italiana a parte, viene da chiedersi: ma destinare le risorse al merito non onorerebbe di più il lavoro di chi ha prodotto quelle risorse? In altri termini. se l’insegnante (indipendentemente dalla provenienza) è obiettivamente più bravo del collega residente, si fa un favore o un torto al futuro dei figli (anche) padani? E in ogni caso, il problema di trovare meccanismi selettivi che diano maggior peso al merito vi sembra si possa risolvere innalzando medievali muraglie padane?
E noi meridionali, cosa possiamo (ancora) offrire al nostro presente e al futuro dei nostri figli? Come fare tesoro del nostro straordinario recente passato, delle nostre illuminate tradizioni e dei nostri costumi? Non rincorrendo nostalgiche e velleitarie ri-proposizioni di un mondo che fu. Ma nel senso di raccogliere la sfida dell’attualizzazionedello spirito, del metodo, dell’apertura (senza sottomissione) verso il mondo, e in genere della concezione della vita che ha portato i nostri avi, in poco più di un secolo prima del 1860, a brillare tra le civiltà più avanzate della terra.
Mi viene in mente il motto vichiano, verum ipsum factum. Ovvero, come sosteneva Vico alla fine del ‘700, si può veramente conoscere solo ciò di cui si è facitori. E noi meridionali abbiamo smarrito la nostra via perché non conosciamo la nostra storia. E non la conosciamo perché i facitori di quella storia non siamo stati noi e tutt’ora non lo siamo. Da 150 anni ci fanno danzare una danza che non è la nostra danza con una musica che non è la nostra musica. E così ci hanno reso goffi, sgraziati e privi di orgoglio.
Ecco allora l’urgenza di ri-fare nostro il motto vichiano e ri-cominciare a danzare la nostra danza al ritmo della nostra vera musica. Perché solo così (forse) riusciremo a contrapporre una più coraggiosa e aperta via meridiana alla vile, municipale e fallimentare via leghista…


domenica 6 novembre 2011

Se mi fai il patrigno non posso rispettarti

Di Lino Patruno

Poi dice che uno vuole sempre stare a difendere il Sud, mentre l’Italia affonda. Ma per esempio, questa storia dei dipendenti pubblici meridionali che, per non fare affondare l’Italia, dovrebbero guadagnare meno di quelli del Nord perché lì la vita costa di più.Gabbie salariali, rieccole. Strano, perché si riteneva che uno stesso stipendio compensasse la stessa quantità di lavoro a Bari come a Milano. Una legge di civiltà. E che non è compito dello Stato andare a vedere se a Bari si possa comprare un chilo di pane e a Milano 750 grammi. E se uno non è consumatore nel senso che vive d’aria o qualcuno lo sfama, quindi destina ciò che prende al risparmio, deve essere lo Stato a spiare in casa sua e decidere per lui?

Lasciamo stare i criteri per stabilire il costo della vita: magari a Bari si beve acqua di rubinetto, a Milano bevono minerale e dicono che l’acqua costa di più a Milano. E se il barese ha famiglia numerosa, e il milanese è solo, chi deve guadagnare di più? E se il barese ha un figlio che non lavora, mentre il figlio del collega di Milano lavora ed è autonomo, chi deve guadagnare di più? E se il barese per fare una Tac deve andare dal privato perché per quella pubblica servono sei mesi, mentre il collega di Milano paga solo il ticket perché tutto funziona, chi deve guadagnare di più? E il bus? E gli asili? Più che il costo della vita, bisognerebbe conteggiare il costo dell’esistenza.

Tutto questo senza dire che il collega di Milano, se il lavoro pubblico non gli conviene, può trovarne un altro con molta minore difficoltà (a parte il fatto che nessuno l’ha obbligato a fare lo statale). Anche per questo ci sono più dipendenti pubblici al Sud che al Nord: perché il lavoro pubblico è un ammortizzatore sociale rispetto a condizioni che non consentono di creare agevolmente altro lavoro. Bisognerebbe dirlo a tutti i leghisti alla Salvini che fanno i guappi in tv pontificando sempre sul Sud, parassiti qua parassiti là.

E poi. Il collega di Milano vive in una città (e in una zona del Paese) in cui la maggiore ricchezza del Comune gli consente addirittura di avere servizi pubblici migliori pagando meno tasse. E mentre si propone di far guadagnare a lui più del barese, Tremonti taglia invece fondi al Comune di Bari nello stesso modo in cui li taglia a Milano. Tagli lineari, uguali per tutti. Senza tener conto che già il Comune di Bari è meno ricco di uno del Nord perché, essendo meno ricchi i cittadini, ricava meno dalle tasse. E che proprio questo Comune avrebbe bisogno di maggiori fondi per far funzionare bus e asili come a Milano. Come dire: tra stipendi e fondi ai Comuni, figli e figliastri sempre a danno di chi?

Altrettanto scontato che nessun politico difenda il Sud, quasi se ne vergognano. Come nessuno difende il Sud dal taglio dei treni. Ora via due dalla linea adriatica, quando proprio il Sud ne avrebbe più bisogno essendo peggio collegato dagli aerei che nel bilancio di un meridionale pesano più che in quello di un settentrionale. Ma dicono che sono rami secchi, come viene considerato un po’ tutto il Sud. Innescando il meccanismo automatico non dello sviluppo ma del sottosviluppo. Non si mettono i treni perché non ci sarebbe traffico. Ma se non ci sono i treni non può esserci traffico. Come l’uovo e la gallina. Ignorando che c’è un diritto costituzionale ad avere allo stesso modo i treni prima di stabilire che non servono. E perché l’alta velocità c’è solo al Nord? Forse che il Sud gode ad andare più lento?

Ovvio che al Sud nessuno investa, deve essere uno che vuol farsi del male. Nessuno verrebbe a investire dove uno stesso meridionale vuole scappare. Ma ora l’autocritica meridionale dovrebbe farsi più sofisticata. Essendo sempre più i censori i quali sollecitano il Sud a cercare in se stesso il suo sviluppo più che attenderlo sempre da fuori. Insomma il divario sarebbe più sociale che economico. Il Sud dovrebbe avere più capacità di cooperazione che individualismo, più responsabilità e meno disprezzo per la legalità, più cura per i beni pubblici che per i propri interessi. Dovrebbe avere un senso della comunità che fa osservare le regole nell’interesse di tutti. Civismo.

Ma un meridionale, che è civilissimo al Nord, lo è meno al Sud. Dove butta la carta per terra e passa col rosso in spregio allo Stato che non dimostra di aver cura di lui. Uno rispetta le regole dello Stato se lo Stato gli dà rispetto non facendolo vivere in condizioni economiche indegne. Uno rispetta le regole dello Stato (e in fondo le sue) se lo Stato non gli toglie i treni, se gli dà le strade, se non affama il suo Comune, se combatte efficacemente la criminalità. Il meridionale è un buon figlio se lo Stato non gli fa il patrigno.

Ecco tornare al solito interrogativo sul Sud: è nato prima l’uovo o la gallina?

Fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno del 4 novembre 2011

Le regioni del nord regine dell'export europeo ma è il sud Italia a crescere più velocemente


Uno studio di Intesa Sanpaolo e di Smr-Studi e ricerche meridionali sfata alcuni luoghi comuni sulla scarsa proiezione internazionale delle aree meridionali del paese. Sicilia, Lazio e Campania, negli ultimi cinque anni, sono quelle che hanno guadagnato più posizioni

 

MILANO - La si potrebbe intendere come la rivincita economica delle regioni del centro-sud su quelle del "ricco" settentrione. Non ancora dal punto di vista dei numeri: in termini assoluti sono ancora dalla parte delle imprese del nord. Stiamo invece parlando di dinamismo e di tendenza alla crescita in campo internazionale: a sorpresa, si scopre che sono le regioni del dell'Italia centrale e meridionale quelle che - negli ultimi cinque anni - hanno mostrato un maggiore vivacità. Mentre le regioni settentrionali, pur rimanendo ai vertici delle posizioni in campo europeo, sono rimaste statische sulle loro posizioni.

E' uno degli spunti più interessanti del documento frutto del lavoro congiunto dell'ufficio studi di Intesa Sanpaolo e da Srm -Studi e ricerche per il mezzogiorno che ha come tema "L'apertura internazionale delle regioni italiane". In cui si trova conferma della vocazione delle regioni del nord all'ettività di esportazione. Nella classifica delle aree dell'Europa occidentale per la propensione all'expor, le regioni settentrionali rimangono ai vertici: se primi sono i tedeschi del Baden-Wuttemberg, subito dopo viene il Friuli-Venezia Giulia. E se al terzo posto troviamo la Baviera, subito dopo abbiamo Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia.

Ancora meglio se consideriamo la classifica per la presenza sui nuovi mercati sul totale delle esportazioni. In questo caso, in testa c'è il Friuli, che si lascia alle spalle la Baviera e poi Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto.
Ma queste, tutto sommato, sono solo conferme di quanto accaduto nei primi sette mesi dell'anno, che hanno visto l'export dell'Italia aumentato del 14% contro il +13,8% della Germania e il +7,6% della Francia. Non a caso, nei primi sei mesi del 2001, ben undici regioni italiane (nelle esportazioni manifatturiere) hanno fatto meglio della Germania, salendo oltre il 13,8%.


Ma oltre alle conferme ci sono le sorprese. Lo studio ha individuato un indice di internazionalizzazione delle regioni italiane, in base al quale dal 2006 al 2010 a essere cresciute di più non sono le regioni del Nord, ma Sicilia, Lazio, Campania e Calabria. "E' vero che partivano da livelli più bassi - ha spiegato Gregorio De Felice, capo ufficio studi di Intesa - ma il passo avanti è significativo".

In altri termini, il nord si conferma per il maggior peso, ma è il sud a prendersi tutti i primi posti per maggior dinamismo. Il centro Italia è la macro-area che presenta la maggior crescita sullo scenario internazionale (+15,9%), la Sicilia dimostra la miglior prestazione nell'indicatore economico di "apertura internazionale" negli ultimi cinque anni e la Campania la migliore dinamica dell'indicatore di apertura commerciale, calcolato come rapporto tra interscambio commerciale e Pil (+13,8%), in un contesto economico non certo positivo".

 

 
Design by Free WordPress Themes | Bloggerized by Lasantha - Premium Blogger Themes | Hot Sonakshi Sinha, Car Price in India